AGNESE GALIOTTO

Scheletro (Skeleton), 2023
Installation (collages on canvas, iron structure)

The installation “Scheletro” (Skeleton) is presented as a quadrangular iron structure that is also a habitable space: rooms boxed into each other delineate geometries that protect and isolate their respective contents, keeping them enclosed within their architectural structure. Once inside, we are immersed in a collage composed of the preparatory cartons of frescoes used as a 1:1 scale reference to paint walls of abandoned houses, exhibition spaces, corridors. The walls are transformed into forests, fossil expanses and floating abysses.

 

PALINGENESI A COLORI

 

 

Di Beatrice Benedetti

 

 

Una “stanza nella stanza”: ecco ciò che ha creato Agnese Galiotto con l’installazione Scheletro inserita al centro dellaSala Morone nel Convento di San Bernardino a Verona. 

L’operazione site specific, a cura della galleria ARTERICAMBI, ha previsto l’innesto nella sala rinascimentale di una struttura quadrangolare in ferro, un dispositivo temporaneo per esplorare diverse latitudini ed ere geologiche, fino alla dimensione immateriale di ciò che sarà. Nello specifico, Scheletro è costituito da una composizione di tele grezze su cui sono incollati cartoni preparatori in scala 1:1 di affreschi realizzati da Galiotto in spazi espositivi o su case abbandonate. Il quadrato dell’installazione contemporanea si colloca nella stanza un tempo adibita a biblioteca del convento dei Frati minori, interamente affrescata tra 1494 e 1503 da Domenico e Francesco Morone (da cui mutua il nome) per volere del committente Lionello di Donato Sagramoso.

Già autrice di affreschi parietali di notevoli dimensioni in vari luoghi del mondo –dall’Italia alla Germania alla Corea del Sud–, Galiotto prosegue con Scheletro il suo confronto con una tradizione millenaria, attualizzando i codici e il concetto stesso di pittura, emanifestando una conoscenza accurata del patrimonio storico-artistico in cui interviene stavolta con la sua forma essenziale, ma densa, che attiva una serie di eco e rimandi.

L’installazione ha l’aspetto di un habitat domestico nomade, una mise en abîme di uno spazio nello spazio, con “pareti” in lino anziché di calce, monocrome all’esterno e interrotte da un’invisibile soglia d’ingresso. I cartoni, sospesi e precari, mostrano i loro colori all’interno come muri dipinti di una dimora ideale, in contrapposizione all’eternità (presunta) garantita dal processo chimico che incorpora i pigmenti nell’intonaco steso “a giornate”. L’affresco, concepito per rimanere invariato per secoli, si misura in questo caso con la fragilità del proprio film pittorico nonché dell’ossatura su cui è fissato, e dunque con la sua potenziale scomparsa. 

In passato era il cartone a scomparire: usato per trasferire la bozza del progetto da dipingere su parete –di frequente con la tecnica dello “spolvero”–, il materiale preparatorio veniva “consumato” e conservato solo raramente. Per l’artista di Chiampo invece l’elemento effimero e progettuale dell’opera diventa spesso l’unica traccia di qualcosa che è stato ed è andato perduto, e persino di ciò che ancora non è accaduto e forse sarà. La precarietà del supporto si collega in questo modo all’inesorabilità del destino di chi esegue e contempla l’opera, nonché a quella della natura, vera protagonista del visibile di Galiotto. Alcuni dei cartoni che la composizione Scheletro associa in un inedito ecosistema, sono stati infatti il riferimento per affreschi in luoghi destinati alla demolizione; talvolta, per conservarli, i dipinti sono stati “strappati” dalle pareti delle case o delle gallerie che li ospitavano, con la stessa tecnica con cui si preservano i reperti storici o di valore archeologico. L’installazione esposta in Sala Morone comprende anche un caso in cui esiste soltanto il cartone preparatorio, poiché l’affresco non è mai stato eseguito dall’artista. Avviene così un ribaltamento dei rapporti tra fasi creative, oltre che uno scarto innovativo rispetto a una pratica che ha dato origine a capolavori assoluti della storia dell’arte e che Agnese Galiotto arriva a padroneggiare in maniera del tutto personale.

 

Le radici della scelta alla base di Scheletro sono ancestrali: la pittura murale può esser fatta risalire agli albori dell’umanità e volendo circoscrivere il campo alla tecnica specifica, l’affresco ha una storia millenaria, che parte dalla civiltà minoica. L’ideazione stessa di una “stanza nella stanza” rimanda all’antichità classica in cui veniva denominata cella (in greco ναός, naòs) la parte più interna di un tempio, tipicamente greco o romano, dove si trovava la statua della divinità. Questa struttura nucleare coperta e racchiusa da muri ha dato origine ai significati estesi di cellamonacale, ma anche di cellula biologica di piante o animali, e di stazione base della comunicazione cellulare in epoca contemporanea. È come se l’opera di Galiotto avverasse questa traslazione linguistica, smaterializzando la linea di confine tra manufatto artificiale e spontaneità della natura, oltre che tra antichità e tempo presente.

Con un salto epocale l’installazione riporta lo spettatore alle testimonianze pittoriche delle domus di Pompei, scoperte in etàborbonica, intorno al XVIII secolo. Nonostante non sia stato possibile per Domenico Morone o per il figlio Francesco ispirarsi alle pareti pompeiane, i santi e martiri della sala del Convento di San Bernardino a Verona presentano somiglianze con le proporzioni dello stile pittorico più maturo del primo secolo a.C.. La sala richiama alla memoria il cosiddetto “quarto stile” della nota Villa dei Misteri, in cui sono presenti figure femminili a grandezza naturale, anche se i santi del Morone poggiano su podi che ricordano i portici delle piazze di Giorgio De Chirico o su specchiature marmoree che somigliano a opere di Daniel Buren e Donald Judd ante litteram. D’altro canto, l’artista nata nel 1996 ha indubbiamente sedimentato nella propria memoria i colori delle domus pompeiane: basti pensare allo sfondo rosso del suo affresco La montagna non esiste presentato di recente ad Almenno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo. Galiotto ha trovato interessanti parallelismi anche tra l’antica Pompei e la microscopica isola coreana di Gapado, nel Mar Giallo, durante i sei mesi trascorsi in residenza su invito di Yasmil Raymond, già curatrice di pittura del MoMA di New York. «A Gapado –ricorda l’artista– i tifoni e l’acqua salata disboscavano l’isola e distruggevano le costruzioni degli abitanti, proprio come il vulcano ha spazzato via la civiltà di Pompei. Solo nelle case abbandonate crescevano specie vegetali ad alto fusto, poiché al riparo dal vento e dal sale. Mentre sulla terraferma la vita sembrava morta, quella subacquea era rigogliosa». Novella Atlantide nella memoria di Agnese, Gapado è evocata a Verona grazie a creature marine come una gigantesca medusa rosa, sospesa su quei muri di tela che ricostruiscono in Sala Morone un’immaginaria struttura “cellulare”, tipica delle case coreane, con una stanza centrale e altri ambienti ai lati. 

 

L’opera di Galiotto è dunque nel contempo affine tecnicamente a quella cinquecentesca in cui si inserisce, ma crea un’originale sovrapposizione di più immagini concepite per luoghi lontani e in tempi diversi, alcune delle quali, come scie luminose, permangonodopo la scomparsa della propria stella cometa. Nella contemporaneità digitale e immateriale in cui si trova a vivere Agnese, il senso di eternità del tempo che l’affresco richiama perdurando per secoli è trasferito nei suoi collage di immagini desunte da infiniti database, che mescolano memoria personale e collettiva, generando visioni surreali vicine ad allucinazioni, sebbene composte da frammenti di realtà.

Oltre alla tecnica, la natura rappresenta la maggiore analogia tra lo scrigno del sapere rinascimentale, frequentato dagli stessi dottori e cardinali dell’ordine francescano dipinti sui lati della Sala, e la stanza provvisoria inserita al centro da Galiotto. 

I panorami del Lago di Garda, affrescati dal Morone in omaggio alla famiglia Sagramoso e ai loro possedimenti a Malcesine, innescano infatti un continuum con le foreste e gli abissi illustrati con dovizia da Agnese Galiotto, facendo emergere l’intento comune tra artisti di epoche lontane: aprire finestre sull’infinito. Come Domenico e Francesco Morone collocano le figure di santi e martiri all’interno di architetture astratte e il bestiario sul fregio perde il cromatismo realistico virando in una decorazione a grisaille, così le atmosfere di Galiotto cristallizzano creature luminescenti che fluttuano in distese fossili, in una coesistenza magica tra fisica e metafisica. Laddove sulla parete di fondo della biblioteca le ali screziate a secco dai Morone sostengono i cherubini che attorniano la Vergine, in Scheletro, al centro della sala, natura e cultura si riappropriano dell’ambiente oggi “disabitato”, riattivandone le energie cosmiche. 

Tra i motivi a volute vegetali del fregio superiore della sala, i Morone hanno disseminato la cadenzata presenza di un gufo e un’allodola, simbolo dell’alternarsi tra il giorno e la notte, mentre nelle foreste di Scheletro il tema ornitologico –tra i favoriti della Galiotto– è evidente nelle gazze ghiandaie descritte nel dettaglio mentre trasportano chicchi di melograno, frutto biblico della Terra Promessa e simbolo del martirio di Gesù Cristo. Come in una allucinazione “volontaria” da Intelligenza Artificiale, flora botanica e fauna animale si mescolano nei cartoni contemporanei: un airone bianco maggiore porta in bocca una scolopendra (memoria di Gapado) e convive con i pesci catturati e sfilettati (altro flashback coreano) per divenire sushi, piatto principale della dieta degli isolani. Nella stessa vegetazione si aggira un gatto blu, concepito dall’artista durante gli studi a Francoforte per un affresco mai realizzato: il ricordo di un ragazzo scomparso amante dei felini reincarnatosi grazie all’arte in uno di essi.

Vita Morte Martirio Resurrezione: il ciclo vitale rappresentato da Agnese Galiotto ben s’inserisce nella sala del Convento in armonia con la visione gloriosa della Madonna tra gli angeli e i santi Francesco e Chiara sulla parete di fondo. L’autore del Cantico delle creature rappresenta un ulteriore punto di contatto da menzionare tra i decori di Sala Morone e la cella dell’artista vicentina, la cui ricerca si concentra –si è detto– sulla conoscenza e la coesistenza armonica tra l’umano e le altre specie viventi. Galiotto ha affermato peraltro di ispirarsi, per la composizione e la struttura delle scene, alle Storie di san Francesco affrescate tra 1292 e 1305 nella basilica di Assisi. Anche in questo caso il richiamo non è solo all’umanità delle figure trecentesche di Giotto, ma anche alle vicende di uno dei santi più ecumenici ed “ecologisti” della cultura occidentale.

Attraverso la pittura, Galiotto mette in dialogo piante, animali ed esseri umani, evocando una natura metafisica, oltre il naturalismo, paesaggi in cui sono immerse la madre e la sorella dell’artista, in un abbraccio che ricorda quello di Gioacchino e Anna o di Cristo e Giuda dipinti da Giotto: i corpi delle due donne appaiono egualmente fusi in un’unica persona e nell’intera umanità che si commuove, specchiandosi nella propria condizione.

 

La stanza-dispositivo di Galiotto è dunque popolata di creature terrestri, ma allude all’ultraterreno, per questo ben si colloca nella stanza più antica –altro Stargate che trascende il contingente–, con un approccio senz’altro più laico, comunque intimo, meditativo e a suo modo spirituale, come lo stesso titolo lascia trapelare, rimandando all’essenza sia naturale che sovrannaturale dell’esistenza.

«Scheletro è questo: la struttura di qualcosa che non c’è più, una stanza immaginaria di aria e carta», ha dichiarato Galiotto, richiamando, in tempi più vicini a lei rispetto alle domus, a Giotto e al Morone, una donna che ha piantato la sua Tenda, il suo involucro abitabile alla galleria Notizie di Torino: è accaduto con Carla Accardi nel 1966 due anni prima all’Igloo di Giap (1968) di Mario Merz. Altre donne, le Haenyeo (sommozzatrici) dell’isola di Jeju, sono state le prime a mettere piede sulle coste di Gapado, tra alghe e madreperle. La Tenda di Carla aveva pareti trasparenti di sicofoil dipinto di rosa come una medusa, “muri” adattabili che non temevano il vento, anzi vi fluttuavano erranti, al pari di Scheletro, cellula in viaggio verso l’eterno per un’altra via.